giovedì 26 novembre 2009

Segnalazioni



Segnaliamo ai nostri Lettori la nascita del blog del Nucleo di Scienze Politiche Roma Tre del Blocco Studentesco (leggi) e, per chi non lo avesse letto, un nostro articolo pubblicato sull’«Ideodromo» la settimana scorsa (leggi).


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giovedì 19 novembre 2009

Noi, inutili



di Marco Aurelio Casalino


«Come eravamo inutili…». Scrive Nietzsche. Si riferisce alla sua adolescenza, in compagnia di un suo caro amico. Il tanto enigmatico filosofo si riferisce ad uno specifico “modo di essere”, che tocca il suo punto cardine nel periodo giovanile della vita. Azzardo a dire (rischiando di non essere più letto dopo questo rigo!), che chi non ha mai provato la sensazione a cui si riferisce il filosofo, e alla quale mi rifaccio in questo scritto, non ha mai avuto speranza di essere un uomo libero. Almeno per un attimo.

La polemica di Nietzsche è ovviamente sociale (nonché culturale, di conseguenza politica), radicata nel sistema che vive, ed è facilmente accostabile alla società che viviamo oggi: egli si scaglia contro l’egualitarismo democratico-borghese e utilitarista, contro l’uomo pratico-moderno (il cosiddetto «homo œconomicus»), che ha esclusivamente nel materiale la sua ragione di vita. A questo oppone quello che noi, volgarmente, chiamiamo «Superuomo» (ben lontano dal Superman americano, e ben lungi dall’essere super...), ovvero un mito, un punto di riferimento, una figura ideale che rappresenta la vera tensione e volontà di superamento, dove all’utile dell’uomo moderno è opposto l’«inutile» («come eravamo inutili»...), ossia alle «cose» vengono opposte le «idee», agli «oggetti» i «pensieri», alla pavida morale la virtù del coraggio, alla razionalità pratica l’innocenza infantile, alla conservazione passiva la creazione «divina e superumana», al conformismo e all’egoismo l’intransigenza e l’incontrollabilità, al brutto, servile, meschino, basso, timoroso, vile e “normale” oppone l’orgoglio di chi ride di scherno della legge del profitto e della morale piccolo-borghese. In pochissime parole, alla modernità oppone la tradizione.

Nietzsche, pensando gioiosamente alla sua giovinezza spensierata e pura («come eravamo inutili»...), guarda ai giovani del suo tempo ed alle generazioni future; la sua speculazione filosofica, in questo ambito, si basa sul descrivere quello che ai suoi occhi è il decadente scenario della sua cultura, per invogliare i giovani a ribellarsi alla prassi democratica dell’educazione di massa ed alla sottomissione della cultura e dell’educazione all’economia. Non sarà né il primo né l’ultimo a sviluppare questo pensiero, ma la perdita dello «stupore infantile» della società moderna, a vantaggio della «competenza-efficienza» (che è sempre auto-annullamento ed alienazione...) della società moderna, è spesso presente nei suoi scritti. E con sorprendente vigore denunciati. Questo «assoggettamento totale» dell’uomo al mero interesse economico è per Nietzsche una vera e propria castrazione dell’evoluzione naturale dell’uomo stesso, costretto a vivere «all’altezza del proprio tempo, con cui si conoscono tutte le realtà per arricchirsi, e nel modo più facile». Vittoria della predazione, quindi involuzione, regresso, decadenza. Ecco la modernità, il luogo principe della sovversione («il rovesciamento dei valori»), ove la massa è informe, indistinta, uguale a sé stessa. Nulla, insomma.

«Non possiamo certo passare sotto silenzio il fatto che molti presupposti dei nostri metodi moderni di educazione portino con sé il carattere dell’innaturalezza, e che le più fatali debolezze della nostra epoca si connettano proprio a questi metodi innaturali di educazione».
L’uomo utilitario, in un’epoca siffatta, diviene schiavo e soffocato da una morale misera e materialista, drogato dall’educazione di massa, e attuatore dell’idea egualitarista. L’egualitarismo, che Nietzsche vede come storicizzazione nei secoli della morale cristiana, è un potere che opprime l’uomo, l’uomo che vuole essere «libero di e non libero da». Egli vede come anima portante di quest’uomo decadente e simbolo dell’oppressione morale la figura del «prete», ma non solo nell’ambito Chiesa, bensì anche nella figura del politico, e quindi nella cultura, nell’arte, nella scienza. Insomma, una qualsiasi istituzione moderna è schiava del pensare moderno («umano troppo umano»).

Solo attraverso un grande «no», un grande rifiuto e un inopinabile disgusto verso questa società, una grande rivoluzione sarà in marcia. E solo così, forse, gli uomini potranno nuovamente sentire quella strana e unica sensazione di invincibile libertà, con gli occhi curiosi verso il mondo e il cuore pieno di ardore. Solo così potranno tornare a sentirsi, anche solo per un attimo, «inutili». Inutili per vivere intensamente la loro vita, ed abbracciare altrettanto intensamente la propria morte. «Colui che adempie la sua vita, morrà la sua morte da vittorioso. Così si dovrebbe imparare a morire. Questa è la morte migliore: morire in battaglia e profondere un animo grande». Sembra un’impresa, miei cari uomini liberi, attuare queste parole nella realtà che viviamo, ma non possiamo (non possiamo!) rassegnarci ad un’esistenza del «produci-consuma-crepa». «Siamo così, e non possiamo essere altrimenti», ci ricorda Evola.

E allora, il Superuomo nietzscheano, il «ricorda chi eravamo» di Re Leonida, il grido di vendetta di Achille e quello di libertà di William Wallace, il «mito della caverna» di Platone, il «cavalcare la tigre» di Evola, o il «verrà il nostro giorno» di Bobby Sands, il «Patria o muerte» del “Che”, o Dante quando ci dice «uomini siate, non pecore matte», e tanti altri, possono essere interpretati anche individualmente, se si tratta di ribellione, in mancanza di una vera guida.
Può essere chiamato anarchia, fascismo, comunismo, nazionalsocialismo, razzismo, socialismo, esistenzialismo, brigantaggio, populismo, etc.
Quello che veramente ci deve accomunare è la fede nei confronti di una guerra che, interiore o militante che sia, assume una forma quasi metafisica, ma soprattutto deve riconoscersi nello stesso nemico da combattere. Una guerra da combattere anche da soli, se è necessario. Contro tutto e tutti. Una guerra anche già persa, «inutile»... appunto. Noi siamo i ribelli. Gli inutili.

«Il ribelle vuole solo rimanere fedele a sé stesso, fedele ad una scelta fatta da ragazzo» scrive Massimo Fini. Cercate qualcosa per cui valga la pena vivere, e sarà la stessa cosa per cui varrà la pena morire, altrimenti non sarete pronti e forti e liberi abbastanza per vivere, e qualcun altro troverà “quel qualcosa” per voi. Questo ci insegnano i nostri padri. Così Nietzsche: «La natura mette, di tanto in tanto, al mondo certi uomini cui assegna compiti superiori al comune. Questi hanno un destino speciale: per loro è normale che non valgano le leggi comuni; essi devono far valere le loro idee, la loro forza, e devono usarla».

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sabato 14 novembre 2009

La voce della riscossa del popolo italiano




Forse che ignorando o non conoscendo a fondo il pensiero del Duce si può affermare di essere fascisti? Noi diciamo di no. Ché il fascismo non è istinto ma educazione e perciò è conoscenza della sua mistica, che è conoscenza di Mussolini


(Niccolò Giani)


La nostra biblioteca si arricchisce oggi di un testo fondamentale, sia per quanto riguarda il suo valore storico, sia, soprattutto, per il suo valore ideale: i discorsi di Benito Mussolini.
Data la mole non indifferente dell’opera oratoria del Duce, pubblichiamo per ora (in attesa delle ulteriori sezioni) i discorsi che vanno dal 1914 al 1922.

Essi rappresentano un’irrinunciabile fonte primaria sull’origine e lo sviluppo del pensiero di Mussolini e, quindi, del Fascismo: dalla fondazione del «Popolo d’Italia» all’espulsione dal Partito Socialista, dalla campagna per l’interventismo alle trincee del Carso, dalla disfatta di Caporetto a Vittorio Veneto. E ancora: dalla «vittoria mutilata» alla fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento, dall’impresa di Fiume al «Biennio rosso», dalla nascita del Partito Nazionale Fascista alla «Marcia su Roma». Dall’opera emerge dunque un importante pezzo di storia d’Italia, filtrata attraverso le parole infiammate e infiammanti di Mussolini.

Si ripercorrono gli avvenimenti dell’avventura bellica del popolo italiano, la cosiddetta «Quarta guerra d’indipendenza», che farà finalmente dell’Italia una Nazione. Un governo inetto, tuttavia, schiavo del suo vacuo parlamentarismo e di una prudenza diplomatica indegna, «mutilerà» di fatto la vittoria del (ri)nascente popolo italiano, suscitando le giustificate ire dei soldati che stavano ritornando alle loro case dopo quattro duri e atroci anni di trincea, trascorsi tra fango, fame e baionette.

La situazione del Paese – vessato da un vertiginoso caro-vita, da una classe politica oziosa e incapace, dai disordini causati dai socialisti e dal vuoto di autorità – renderà necessaria la nascita di un fronte «nazionale» compatto, formato da ex combattenti, arditi, futuristi, ecc., in grado di sostituirsi all’inconcludente Parlamento per suonare l’ora della riscossa del popolo italiano: i Fasci Italiani di Combattimento.

Alleanze politiche, battaglie oratorie, lavorio diplomatico, il crescente consenso dei Fasci e l’aumento della loro forza, scontri di piazza, assalti squadristici, i primi «martiri» della «Rivoluzione delle camicie nere» fanno da contorno all’opera che oggi presentiamo.
I discorsi di Mussolini ci forniscono, infatti, uno spaccato quanto mai interessante del percorso di maturazione politica dei Fasci, da cui è possibile intendere e comprendere i motivi della loro vittoria finale.

Ma – aspetto tutt’altro che secondario – emergono inoltre le indiscusse qualità oratorie del Duce (tra l’altro brillante giornalista), con il suo linguaggio piano e schietto (ma comunque elegante), privo delle ampollosità e della verbosità che caratterizzavano i discorsi dei politici coevi. Insomma: un uomo del popolo che parlava al popolo col linguaggio del popolo.

Che altro aggiungere? Riaffermando la citazione iniziale di Niccolò Giani, vi auguriamo una buona e appassionante lettura.

L’opera è disponibile nella nostra biblioteca

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mercoledì 4 novembre 2009

Ernst Jünger: il Ribelle

Il passo ulteriore del pensiero di Jünger, dopo la fine della guerra e la distruzione della Germania, che lo portarono a prendere irrimediabilmente atto della natura nichilista e distruttiva della modernità nelle forme fino ad allora proposte, fu elaborare un’alternativa al totalitarismo liberaldemocratico imperante.
Se non era più possibile un’azione collettiva, come quella prospettata dalla mobilitazione totale, rimaneva però una via di fuga individuale, quella del «passaggio al bosco» (Waldgang), descritta nel saggio del 1951 Il trattato del ribelle (Der Waldgang), edito in Italia da Adelphi.

Sul titolo va operata una precisazione etimologica. Il Waldgänger («colui che passa al bosco») – qui tradotto come «ribelle» – era, nell’antica cultura germanica, il proscritto, colui che bandito dalla comunità per aver commesso un delitto, se ne purificava vivendo nella foresta (Wald), non gli attuali boschi ormai antropizzati e coltivati, ma l’originaria foresta vergine che copriva l’Europa. In Jünger questa figura assume un significato simile, anche se meno letterale.

Infatti, in un’epoca come la nostra, le domande sono sempre più semplici e drastiche, e prendono la forma di una sorta d’interrogatorio da parte di chi detiene il potere. Tanto più la libertà di dire «no» è sistematicamente intimidita e limitata, quanto più però questo rifiuto acquista una forza maggiormente eversiva. Questa presa di posizione, anche non dovesse scuotere il nemico, ha l’indiscutibile effetto etico però di mutare chi la compie. Si afferma così una terza figura: il Ribelle, la cui scelta di passare al bosco esprime la libertà, tanto più preziosa quanto essa conferisce un senso umano alla necessità storica. Questo singolo uomo su cento, forte del proprio coraggio e della nozione del diritto, è in grado di mettere in pericolo lo Stato dittatoriale, esso stesso tanto più in pericolo, quanto più brutale, proprio perché la maggioranza consenziente, essendo docile, è inaffidabile, mentre la minoranza ribelle, essendo decisa, è irriducibile.

In epoca di Guerra Fredda, il passaggio al bosco, contrapposto alla nave/Stato, reso più difficile dall’attuale dipendenza della vita del singolo dalle strutture collettive, è possibile in ogni parte della terra, ed è in grado di restituire la sovranità al singolo e far crollare i Titani. Mentre la necessità, infatti, è più che altro una prova, la libertà invece, pur richiedendo sacrifici, è l’autentico motore della Storia.
Chiaramente, l’imminenza della catastrofe apertamente preparata dal sistema moderno, non fa che rendere più urgente questa scelta di campo. Di qui non deriva che l’immaginazione debba staccare l’uomo dalla realtà, bensì che essa debba ricostruire, tramite il bosco, un’alternativa di quiete all’immagine ambigua del Titanic/Leviatano (comfort/terrore) che rappresenta invece la modernità. Il Ribelle deve affrontare anche la paura, un sintomo del nostro tempo, che si svela appieno qualora l’automatismo del Potere si mostri nella sua fatalità. Liberare l’uomo da questa paura, metterlo in dialogo con essa, sgombera le maschere imposte dalla tecnica ed apre la via al «passaggio al bosco», in cui il potere del singolo, dell’uomo creato libero da Dio si afferma appieno.

Il Ribelle, quindi, date queste premesse, non può limitarsi certo all’indifferenza, ma deve ridefinire la sua libertà. Egli deve dunque evitare sia un’azione esclusivamente interiore che un’azione esclusivamente concreta, resistendo al potere con ogni mezzo, ma mantenendo il contatto con quell’energia primigenia e quelle radici profonde, ancor oggi presenti nell’uomo comune, cui conferiscono un’innata saggezza. Nel bosco l’uomo ritrova e riconosce la propria essenza interiore. Qui egli affronta e supera, come in un’iniziazione, la paura della morte. Le Chiese possono offrire oasi nel deserto che cresce, ma l’uomo deve saperne essere autonomo, perché di fronte a questa decisione si trova ad essere solo. Questo non toglie, tuttavia, che vitale sia l’opera del teologo e delle Chiese nell’aiutare l’uomo a prendere consapevolezza della sua condizione, fornendogli gli adeguati strumenti d’orientamento spirituale. Questo incontro con se stesso fa sì che egli debba saper fare a meno della medicina corrente, del diritto moderno, e conservare anche in questi ambiti, come pure nella scelta degli armamenti di cui servirsi, la libertà della sua scelta. Fondamentale è quindi che egli non perda il contatto con l’essere, il luogo da cui sboccia il Verbo che, trascendendo la lingua, diviene potenza creatrice.

In sintesi, si può vedere come il Ribelle sia incentrato sul tema della sovranità del singolo, data dal contatto con territori vergini da cui può scaturire l’Assoluto, per cui il passaggio al bosco è per Jünger la giusta e necessaria risposta ai tentativi di tagliare questo contatto e spogliare l’uomo della propria libertà di scelta. Perciò, nonostante il Ribelle sia un uomo della modernità, posto in contrasto con l’ordine politico moderno, affonda le sue radici in un terreno primigenio e astorico, traendo di qui la libertà e la sicurezza di sé necessarie a liberare se stesso dalla paura e dalla rassegnazione verso il fatalismo e l’automatismo del potere e conferirgli la legittima sovranità nei campi del diritto, della teologia, della medicina, dell’etica. Ne consegue che l’opposizione vitale e vincente al totalitarismo non può essere basata su fondamenta meramente materiali e moderne, bensì deve essere inevitabilmente connessa alla sfera spirituale ed eterna.

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